Il filo nel labirinto: proposte 2022/23​

Per informazioni inviare una mail a lorenzo@facilitatore.it.
I laboratori si tengono
c/o Associazione Solaris – Vicenza, Contrà Soccorso Soccorsetto 17.

L’espressione e le storie per ritrovare il filo delle proprie esperienze: dall’improvvisazione teatrale alla danza e il movimento libero, dalla narrazione alla dinamica di gruppo, “Il filo nel labirinto” offrirà contesti laboratoriali e strumenti che consentiranno di scoprire ed esplorare percorsi di relazione, con se stessi e con gli altri.

I laboratori che saranno presentati:

Impro-teatro – Teatro d’improvvisazione

ARESS-Avere un ruolo, essere se stessi – Crescita personale

Storie e memorie – Narrazione

La mia danza – Danza e movimento libero

Nello spazio vuoto – Playday – Un palcoscenico e un pubblico a disposizione

Le proposte saranno presentate in modo da:

  • Creare contesti in cui le persone si sentano al sicuro, anche e soprattutto a livello emotivo.
  • Offrire opportunità di espressione spontanea, consapevole a livello di vissuti emozionali e rispettosa nei confronti di chi ascolta.
  • Sperimentare modalità di teatro informale e partecipativo e in cui specchiarsi a livello di contenuti.
  • Lavorare sulla conoscenza e l’accoglienza delle diversità (di opinione, di abilità, di cultura, di provenienza…), sentite come una ricchezza anziché un ostacolo alla relazione.
  • Lavorare sulle memorie, proprie e di comunità, in modo da guadagnare consapevolezza del percorso, proprio e complessivo, e aver quindi maggior chiarezza rispetto alle scelte possibili future.
  • Educarsi a saper cambiare ruolo.
  • Lavorare sul concetto di reciproco dono/responsabilità, il munus, inteso come radice su cui costruire una comunità libera e consapevole.

Ci daremo ed offriremo un’attenzione priva di giudizio, nella convinzione che nel riconoscimento reciproco ci sia la base per relazioni più soddisfacenti.

Per informazioni inviare una mail a lorenzo@facilitatore.it.

Nello spazio vuoto – Playday

Poche parole, tanto teatro.
Un palcoscenico vuoto, uno o più temi da esplorare in libertà, uno spazio di espressione per sperimentarsi nel movimento e nella parola, da soli e con gli altri, un pubblico che offre una restituzione supportiva.
Ingredienti semplici per regalarsi una giornata al mese in cui essere come si è, per cercare quello che sembra importante, senza preoccuparsi di tutto ciò in cui si è di solito immersi.
Servono voglia di sperimentare, abbigliamento comodo e calzettoni (si lavora senza scarpe). E un sorriso nei confronti di se stessi.

La mia danza

Il piacere di dedicarsi tempo e attenzione nel movimento: è un laboratorio che punta sulla spontaneità per scoprire che si danza sempre, ogni volta che ci si muove, con se stessi E con gli altri, sull’armonia di ciò che si sente dentro.

Dedicato a tutti, non serve alcuna esperienza, né particolare abilità: quello che il proprio corpo si sente di fare sarà il punto di partenza per aprire mondi ricchi di sfumature, in cui costruire viaggi ogni volta diversi e in linea con quello di cui abbiamo bisogno.
Ci racconteremo di questi viaggi, scoprendo come muoversi ci aiuti a capire di più noi stessi e gli altri.

Servono voglia di sperimentare, abbigliamento comodo e calzettoni (si lavora senza scarpe). E un sorriso nei confronti di se stessi.

Storie e memorie

Narrazione e mitologia personale

Raccontarsi per raccontare.

La memoria, l’immagine, l’accento, l’ascolto… E poi il flusso, l’arresto, il cambio, l’interpretazione…

Nell’arte del racconto ci sono aspetti tecnici su cui ci si può allenare, certo.

In questo laboratorio, tuttavia, partiremo dal piacere, dal creare una relazione e un’intimità con chi ascolta, da ciò che già si conosce bene – la propria storia –, dal far sentire come un racconto possa essere prezioso.

Useremo piccole-grandi domande per mettere a fuoco come le storie personali abbiano tutte un filo comune che le tiene insieme, e le collega a storie più grandi, più conosciute, senza tempo. Ci abitueremo alla relazione con un pubblico a cui far assaporare il piacere dell’ascolto. Riscopriremo che il racconto facilita ogni relazione in una direzione che costruisce reciproca conoscenza e fiducia.

Servono voglia di sperimentare, abbigliamento comodo e calzettoni (si lavora senza scarpe). E un sorriso nei confronti di se stessi.

Sentire

Nel teatro di improvvisazione su cui mi piace lavorare, è tutto quello che davvero conta.

Ed è la base da cui partire e a cui tornare.

DA ATTORE: sono contento di me stessa/o?

Nel lavoro teatrale siamo tutti attori: nel cerchio, nel riscaldamento, nelle danze con pubblico, sul palcoscenico. E le prospettive di osservazione per darsi una risposta possono essere diverse.

Basti pensare… a come ci si è comportati, per come ci si conosce.

Alla relazione con il lavoro.

Alle relazioni con gli altri.

Alla relazione con il facilitatore (diverso dagli altri perché solo perché ha una funzione diversa dal resto del gruppo).

Se viene in mente qualcosa per cui ci si vorrebbe diversi (Attenzione! Vorrei me stesso diverso. Gli altri non c’entrano, in qualunque modo si siano comportati…), lì vuol dire che c’è qualcosa che – se interessa – si può ricordare per lavorarci.

Perché dico questo? Perché rispetto a quel qualcosa SI SENTE. È presente quindi un’emozione che può – letteralmente – creare un personaggio.

DA PUBBLICO: tra le cose che ho visto, che cos’è che mi ha lasciato una traccia? Perché me ne ricordo, perché l’ho commentata, perché mi ha fatto “sentire”…

Ossia: paradossalmente e diversamente da quanto si ritiene, non è necessario che gli attori siano “bravi”. Quello che importa è che quello che hanno messo in scena mi abbia toccato, turbato, fatto emozionare… Certo, se hanno consapevolezza tecnica del proprio lavoro diventa più facile rendere se stessi un efficace strumento espressivo. Ma non è essenziale.

«Tra ciò di cui sono stato pubblico, alcune memorie sono più chiare, e ciò perché…»

… Probabilmente perché l’energia dell’attore, l’emozione con cui comunicava, il suo essere rispettoso del proprio sentire e, al contempo, onesto o diretto mi hanno toccato.

Ho letto nella messinscena, cioè, una sorta di “verità”.

Sono le emozioni, l’intensità dell’espressione, il tono della voce con cui l’attore si gioca che rendono credibile la storia. Il copione, come abbiamo iniziato a capire, è una scusa. Sono gli attori che fanno la differenza.

Beninteso: è verissimo che alcuni copioni rendono la vita più facile di altri. Ma attori poco connessi col “sentire” del proprio personaggio possono rovinare qualunque capolavoro…

Di fatto, da attore mi serve capire che se trovo modo di DAR SPAZIO A QUELLO CHE SENTO mi facilito la vita e rendo meglio. E questo vale per TUTTO ciò che sento: allegria, dubbio, tristezza, rabbia, dolcezza etc. Ossia le emozioni chiare E quelle scure.

In questo lavoro – ma forse non solo… –  SENTIRE è l’unica cosa che davvero importa.

Il cerchio

All’inizio delle sessioni di lavoro che conduco – si tratti di un laboratorio, di prove, della preparazione ad uno spettacolo… – si comincia con un cerchio.
Gli attori cioè si siedono in cerchio. Si vedono, si ascoltano. Sono esposti.

Nel cerchio io sono libero di dire quello che voglio.
Nessuno mi interromperà e tutti ascolteranno senza commentare.
Mi servirà comunque partire da “come mi sento”, allenarmi a trovare le parole per spiegare, elaborare, dare forma a quello che mi attraversa. Verrà naturale agganciare come mi sento a una storia – è l’essere vivo, il mio percorso di vita che mi fa “sentire” – e io valuterò se e come usarla.
Il cerchio è infatti lo spazio della condivisione, mentre il palcoscenico è lo spazio della narrazione.
Il cerchio serve a presentare gli attori e i “personaggi” della serata.
Gli attori hanno un nome: sono Lorenzo, Geneviève, Roberto etc., ma i “personaggi” sono “triste”, “allegro”, “confuso”, “arrabbiato” etc. Infatti Lorenzo, Geneviève, Roberto etc. interpretano quei personaggi in modo personale e ogni volta diverso.
I personaggi parlano con un ritmo, usano le pause, gli occhi, il proprio fisico in modo coerente al proprio modo di sentire. Io, quando ne sono pubblico, osservo, ascolto e… imparo: i miei compagni di cerchio mi offrono elementi da riconoscere, da ricordare, da usare quando a me toccherà il loro stesso personaggio.
Nel cerchio posso parlare tanto o poco, non c’è una regola, né forzature necessarie («lei ha parlato tanto, devo parlare anch’io tanto…»). In generale sarò sensibile al mio pubblico – i miei compagni di lavoro… – e parlerò per quello che ha senso, non di più, non di meno.
Tutti alla fine avranno avuto un’occasione di espressione in libertà.
Tutti sapranno che cosa aspettarsi dai propri compagni per il lavoro insieme.
Tutti si partirà dallo stesso punto.

Come si parla in cerchio?
Parlo di me, quindi parlo nell'”io”. Se alludo ai presenti li menzionerò sempre per nome e in terza persona, mai con il “tu” o il “lui…”, che aprirebbero la porta ad una interlocuzione o alla sensazione di essere trascinati proprio malgrado nei discorsi.

Nel cerchio il facilitatore ha un ruolo diverso dagli altri: c’è chi interpreta il ruolo semplicemente dando la parola ai diversi membri, c’è chi fa una breve lettura che ispiri una riflessioni e orienti la condivisione, chi offre un breve grounding, un esercizio che consenta ai presenti di sintonizzarsi con se stessi e mettere a fuoco con maggior chiarezza come ci si sente.
Durante la condivisione è possibile che il facilitatore senta l’opportunità di una breve domanda: l’intenzione è quella di aiutare l’esposizione e la chiarezza della stessa, mai quella di orientarla. O, se la condivisione lo richiede, potrà far capire a chi parla l’opportunità di andare a chiudere.

A chiusura della sessione di lavoro il cerchio si riunisce nuovamente. Adesso c’è un’esperienza condivisa che avrà fatto evolvere il sentire delle persone, che potranno brevemente condividere le sensazioni, i dubbi, il sentire di tutti, chiudendo il lavoro in trasparenza.

Fare l’esperienza del cerchio fa sentire bene.

La lettura ad alta voce

Leggere è per antonomasia un’attività personalissima, che ciascuno fa dove e quando gli pare, legata alla disponibilità di un testo su un supporto di qualche tipo – adesso ci sono gli ebooks, i telefonini o i tablets… – e la voglia o il bisogno di evadere dal contesto fisico concentrandosi su altro. C’è chi lo vive come la possibilità di stare con se stessi, staccando dalla quotidianità.
A partire da questo, l’attore con che approccio affronta il testo scritto, che ne vuole fare?

Si legge a voce alta per altri, per qualcuno che ascolta, a cui si cerca di passare il sapore che trasuda dalla pagina, al di là del senso del testo.
Una cosa è, infatti, capire quello che c’è scritto, un’altra cosa è trasmetterlo a chi ascolta e non può eventualmente fermarsi, rileggere, riflettere…

Leggere a voce alta significa riconoscere che nel testo ci sono parole, espressioni, intenzioni che possono essere passate o sottolineate con un cambio di ritmo o di tono, con i silenzi, perfino con uno sguardo a chi ascolta, a costruire e consolidare una relazione con il testo.
Il Lettore si prende la responsabilità di costruire un ambiente attorno alle parole. Emozioni. Intenzioni. Pause… È una vera e propria complicità che si costruisce con l’ascoltatore, un cieco che viene condotto per mano a visitare mondi fatti di parole.

Ma noi tutti sappiamo che i mondi – concreti o onirici – sono fatti d’altro.
Le parole altro non sono che un codice, il cui significato non è detto sia sempre scontato per tutti.
È lì, in questo spazio di interpretazione che si inserisce il Lettore, che, con la propria espressione, trasmette il senso che ha compreso.
Per questo, la lettura ad alta voce è un atto di mediazione, è una traduzione che, fatalmente, rimanda a tutti gli attori coinvolti: chi scrive, chi legge, chi ascolta.

Capita di leggere testi che sono solipsistici.
L’autore si specchia nei suoi scritti, si compiace di sé, si tratti di idee, immagini o formule espressive. E si preoccupa solo in parte – se si preoccupa – di chi legge/ascolta.
«Che vuol dire?», ogni tanto chi legge è costretto a chiedersi. 
Quando è così, le letture a voce alta diventano faticose, serve uno sforzo per semplificare, rendere esplicito il senso, o – al contrario – mascherare il solipsismo dell’autore.

All’altro estremo, capita di ascoltare il lettore che si bea della propria abilità, che usa il testo per esibire la propria tecnica, scordando che nella lettura si è semplici strumenti di trasmissione. 
D’altra parte, non è facile. Tra interpretazione ed esibizione ci sono spesso confini sottili, che si impara a conoscere attraversandoli, sbagliando e correggendo.

La parola scritta trasforma tutti in pubblico, compresi gli attori che vogliono misurarsi con la sua lettura ad alta voce.
Se immagino la relazione tra Autore e Lettore come una linea che li connette, conviene tenere il Pubblico come fulcro centrale. Come se fosse un filtro a cui offrire riconoscimento, la cui mera presenza cambia e contribuisce al sapore di tutto.

Fare un regalo al pubblico sarà un’immagine funzionale sia all’uno che all’altro.
L’Autore regalerà le proprie parole, il Lettore la propria interpretazione delle stesse, in un gioco virtuoso in cui ciascuno ha la relazione con qualcuno fuori da sé come fuoco di attenzione.
E la generosità come moneta di scambio.

🙂

Dire “sì”

A fare i conti con il solo “sì”, ci si rende conto presto di quanto il “no” sia uno spazio in cui spesso ci si rifugia.
Nei laboratori di improvvisazione teatrale che conduco arriva puntualissimo il momento in cui si deve fare i conti con quello che si vorrebbe succedesse e, viceversa, con quello che, volente o nolente, si deve affrontare. È così nella vita, in quella vita in cui non si può che improvvisare; ed è, al contempo, una legge dello spettacolo.

Chi ha familiarità con la figura del clown sa come il cosiddetto Augusto – il clown buffo con le braghe larghe, le scarpe sfondate e il naso rosso, contrapposto al clown Bianco, quello elegante che spesso suona la tromba – non abbia nel proprio vocabolario la parola “No”. E come, proprio grazie alla sua disponibilità ad accogliere, gli capiti di infilarsi nelle peripezie più improbabili e comiche. Per uscirne peraltro sempre sorprendentemente bene. È un personaggio, l’Augusto, immediatamente simpatico: chiama un sorriso benevolente, ci si identifica con la sua ingenuità e il suo candore, si sa che si metterà nei guai e si aspetta di capire come farà a districarsi dalle difficoltà in cui si è cacciato.

Improvvisare sul palcoscenico e poter dire solo “sì” implica fare i conti un po’ con quello che – in gergo – si chiama il capitolareCi si arrende, si lascia che ci capiti quello che la sorte, la situazione, le relazioni portano con sé. E ci si affida alla propria capacità (o incapacità) di reagire in modo costruttivo, arrangiandosi alla meglio con le proprie risorse.
E che succede? Succede che, capitolando, uno si affida a quello che “è” nel momento, anziché, ad esempio, a quello che “ha” o “sa”. Emergono la presenza, la capacità di utilizzare le proprie risorse, la relazione che ciascuno ha con se stesso.

È affascinante raccogliere i mille modi di reagire delle persone rispetto alla necessità. 
L’istinto di ribellarsi, di opporre un “no” a quello che è diverso dalle proprie aspettative, è spesso fortissimo. È come se ci fosse una necessità di proteggersi, per non sentirsi in balia di altri o del vento della sorte. Ed è strabiliante la creatività nel cercare di mostrare che, dopo tutto, si è detto solo un «sì, ma…» e non un vero «no». Come ovvio, darsi un limite scatena la ricerca di libertà. L’attore in scena si inventa di tutto pur di non cedere il controllo della situazione: dal parlare più in fretta all’obbiettare che «assolutamente, io mai detto no!», con le mille declinazioni in cui si tenta di manipolare gli altri personaggi ed attori per conservare un possibile qualche recupero.
Di fatto, poter solo dire “sì” porta con sé un’ammissione di umanità e di finitezza, toglie le maschere delle mille piccole furbizie e lascia in balia a sensazioni che in pubblico sono poco frequenti da testimoniare. E che, proprio per questo, diventano magnetiche per il pubblico, che si connette immediatamente con l’impotenza dell’attore. Quante volte ogni giorno ci si sente piccoli ed in difficoltà nel reagire ad eventi, procedure, regole, abitudini, automatismi semplicemente più grandi di noi? Come non sentirsi piccoli di fronte a tutto questo?

Nei diversi stili di improvvisazione si danno accenti diversi al “dire sì”. Keith Johnstone – il guru inglese delle gare di improvvisazione -, ad esempio, ne fa quasi un comandamento. 
E d’altra parte è comprensibile. Noi tutti sappiamo che nelle relazioni un “no” blocca, chiude una storia, mette gli attori nelle condizioni di dover ripartire da un qualche altrove.
Nella mia esperienza arriva viceversa un momento in cui il “no” riguadagna la scena, è una scelta possibile. È l’attore stesso che se ne rende conto quando il suo “no” diventa un ponte, in genere verso una scena da solista, in cui si dà spazio al mondo invisibile che è dentro ciascuno di noi: le ragioni, i sentire, i desideri, le frustrazioni… I pensieri che spiegano i comportamenti.

IMPROVVISAZIONE PER TUTTI

Gli spettacoli di Teatrodelmatto.it hanno in comune un aspetto significativo per lo spettatore: sono a canovaccio e, talvolta, nello spazio vuoto.
L’improvvisazione è cioè strutturalmente utilizzata per la rappresentazione.

Qual è il senso di dar loro un titolo, un tema, un fuoco di attenzione?

Ci sono tanti stili e format di improvvisazione.
In questo caso, ulla scia del fooling l’improvvisazione viene vista come un modo efficace per costruire una sintonia con la quotidianità e una relazione col pubblico.
C’è pertanto una differenza significativa rispetto a chi traduce “improvvisazione teatrale” con lo stilema dei cosiddetti match di improvvisazione.
Il fuoco si concentra sulla messa in gioco, su quello che gli attori scelgono di offrire al pubblico, alla ricerca di una connessione di esperienze, sensazioni, emozioni.
«Che cosa voglio dirti?» è la domanda che ci si pone. Per questo, a fronte di un titolo-contenitore, gli spettacoli e i temi diventano un’opportunità di guardare nel caleidoscopio delle esperienze e dei vissuti per trovarvi uno specchio e sorridere della propria umanità.

Più facile da vedere che da spiegare. 🙂

Io non sono Edipo

Un mito che ha attraversato la Storia e le Culture.
Tremendo, per tanti aspetti. Eppure denso di umanità, di emozioni e di comportamenti in cui trovare e riconoscere storie in cui ci si imbatte costantemente.

Nella relazione con Edipo e il suo dramma, Tiresia, Giocasta, Creonte, Laio, la Pizia… sono soprattutto persone vere, con le loro emozioni, passioni e debolezze. Persone, prima ancora che personaggi con un ruolo e il relativo copione.
Nello studio per la messinscena, il rapporto con se stessi viene visto come il bagaglio – talora il fardello… – per quanto si può costruire nella relazione con gli altri e con il contesto che si vive.

A cura di Lorenzo Bocchese.